David Rumsey Map Collection

Mappe: il nostro bisogno di capire il mondo

Il paesaggio attorno a noi, al di là del suo aspetto fisico, è la risultante del nostro sguardo e della nostra relazione, conflittuale o fraterna, con l’altro

Fin dalla prima infanzia, definiamo noi stessi in rapporto al mondo fisico in cui viviamo elaborando informazioni relative allo spazio, scrive Jerry Brotton nell’introduzione di un suo saggio sulla storia delle mappe. Questa mappatura cognitiva è la nostra bussola per gli anni a seguire e rimane il fulcro portante di ogni nostra rappresentazione dello spazio. Addirittura, alcune correnti dei cultural studies pongono l’esperienza autobiografica a fondamento di una geografia individuale, che riconosce nel punto di vista, cioè nello sguardo di ciascuno, l’unità di misura degli spazi. In altre parole, il paesaggio attorno a noi, al di là del suo aspetto fisico per così dire oggettivo, è la risultante di dinamiche interiori, come il nostro sguardo o il nostro vissuto – del resto basti pensare a come approcciamo e concepiamo una città straniera da quando ne facciamo esperienza con Google Maps – e dinamiche esterne, come i media e il loro portato retorico che ci investe, narrando ogni giorno i luoghi per una guerra, per le previsioni del tempo, per una promozione turistica, per un conflitto sociale, per un grande evento in corso. Vediamo le cose in base a queste influenze e a questi approcci e i luoghi ci appaiono più o meno lontani, più o meno importanti.

«Se ci interessiamo agli animali molto piccoli, il mondo diventa subito immenso» poiché la «concentrazione riduce certamente il campo di caccia, ma ne definisce anche più precisamente il profilo delle sfaccettature. Affinandosi la sensibilità, si presentano differenze che gli occhi, prima, non sapevano cogliere»: Ernst Jünger coniò il termine cacce sottili, per dare il titolo al suo diario da entomologo, in cui la scala dello sguardo dell’osservatore si concentra sulla visione di prossimità, rendendo grande ciò che appare piccolo, variegato ciò che appare uniforme, in sostanza, modificando la realtà apparente del mondo e trasformandola in una nuova geografia.

Possiamo affermare che la forma e la dimensione del mondo dipendano dal modo in cui le osserviamo, percorriamo e misuriamo: per Marco Polo si misuravano in giorni di cammino o di cavallo spazi che oggi per noi distano pochi minuti di aereo, ma in quegli stessi spazi allora si incontravano decine di persone e oggi magari decine di migliaia. Siamo mille volte più numerosi rispetto al Neolitico, che significa aver ridotto di mille volte lo spazio per ciascuno di noi, ma siamo anche mille volte più veloci a percorrere quello spazio, oltre al fatto che il web ha ulteriormente modificato le idee stesse di spazialità e relazione con le cose e le persone. Dunque la geografia non è indiscutibile e non è riducibile a misura dello spazio.

È subito evidente, da queste prime osservazioni, che il concetto stesso di spazio, in quanto entità geometrica misurabile, non è del tutto adatto a descrivere il mondo, nel modo in cui noi ne facciamo esperienza. Però ci sono le mappe, che fissano sulla carta i confini e le relative misure, delimitano le aree e le relative giurisdizioni politiche. Anche quella è geografia, anche quella è realtà. Mondo e mappe, geografie vissute e geografie scritte.

In questo angolo di ambiguità si giocano molte, moltissime questioni cruciali. I piani del discorso sono essenzialmente quattro: il mondo fisico (il terreno, le forme, gli accidenti, le cose che ci sono dove poggiamo i piedi, insomma la nuda terra e ciò che ci abbiamo costruito sopra), la rappresentazione grafica del mondo (mappe di varia foggia e natura, di carta e digitali), le interpretazioni (come si possono leggere sia il mondo sia le rappresentazioni grafiche), le azioni (le scelte, le decisioni, i comportamenti che si assumono in precedenza e in conseguenza dei primi tre punti). Allo snodo vi è lo sguardo interpretante che adottiamo in ogni situazione della nostra vita, e cioè la possibilità di trasformare ciò che vediamo in un pensiero e poi in un’azione.

Sul mondo fisico c’è fin troppo da dire, limitiamoci a considerare che esso può essere modificato, intervenendo sul terreno con un filo spinato, un muro, un vallo, un campo coltivato, piantando una tenda, tagliando un albero, deviando il letto di un fiume, costruendo castelli, strade, ponti, gallerie, condomini, condutture per il gas, cavi per la fibra ottica. In realtà queste sono già azioni, cioè comportamenti conseguenti all’osservazione del mondo fisico, e possono essere azioni violente, comunitarie, dispotiche, concordate; possono avere scopi di difesa, di attacco (per conquistare Masada i Romani costruirono letteralmente una collina), di sviluppo, di messa in sicurezza, di comunicazione, possono avere ragioni economiche, politiche, religiose.

Anche le mappe possono essere modificate, anzi nascono proprio per dare un punto di vista specifico sul mondo, pensiamo al planisfero che abbiamo avuto tutti in classe a scuola: solitamente è quello rappresentato secondo il sistema di Mercatore, risalente al 1569, cioè una proiezione cartografica conforme e cilindrica, che si ottiene proiettando la superficie terrestre dal suo centro su un cilindro tangente all’equatore e srotolandolo, così da rendere piatto ciò che non lo è. Ecco, in quei planisferi l’Europa è tipicamente disegnata al centro; le dimensioni della Groenlandia, un difetto del tipo di rappresentazione, sembrano quelle dell’Africa, che in realtà è quasi quindici volte più grande; si vedono, nella carta politica, i confini ben marcati e gli Stati con colori diversi, in quella fisica le alture, i fiumi e le pianure; ma su altre mappe vediamo ogni giorno rappresentati graficamente i livelli del PIL dei vari Stati o la percentuale di produzione di petrolio, i gradi di libertà di stampa o di rispetto dei diritti delle donne e, ancora, abbiamo visto centinaia di mappe con la concentrazione di casi di Covid.

Non ci vuole molto per capire che la mappa non è il mondo, e nemmeno è una sua imitazione: tanto per incominciare, il mondo non è piatto, non è bidimensionale; anzi, come suggerisce Franco Farinelli, semmai è il mondo che imita la mappa. Per esistere, sostiene Farinelli, la cosa deve conformarsi a ciò che noi rappresentiamo, per esempio uno Stato deve diventare una mappa: «Soltanto ciò che assume la forma e la natura del dispositivo geografico (la mappa) ha diritto all’esistenza e sono gli Stati». E in effetti, il filosofo e attivista politico francese Régis Debray affermò che «uno Stato non l’ha mai visto nessuno, né ad occhio nudo, né in una foto presa dall’aereo», per cui non resta che la carta geografica per sancire uno spazio di sovranità e di controllo, delimitato da precisi confini.

Che le mappe siano armi o almeno un dispositivo politico è un fatto assodato fin dal Rinascimento, quando si considerava la geografia come l’occhio della storia, cioè il modo di leggere e rappresentare gli eventi, anche per i posteri.

Le mappe producono discorsi e retoriche geografiche che evidenziano rapporti di potere o di interessi, ma spesso hanno anche lo scopo di persuadere il pubblico della correttezza di una certa tesi che di volta in volta, si accompagna alla mappa ,medesima: quel territorio dovrebbe appartenere a noi, come si vede dalla mappa, come certifica questa antica mappa, come è evidente dalla distribuzione della popolazione sulla mappa... Quella occidentale è una cultura cartografica e perciò ha potuto costruire i propri sistemi di potere anche avvalendosi di questo strumento, spesso semplicemente dando nomi a ciò che si vede, attribuendo forma e carattere allo spazio geografico. Per cui vi è un Primo Mondo, l’Occidente (che curiosamente include anche Giappone e Corea del Sud), un Secondo Mondo (l’URSS e l’Oriente comunista) e un Terzo Mondo, l’Africa e cosiddetti Paesi emergenti. Vi sono l’asse del male, il blocco orientale, la cortina e l’oltre-cortina, lo heartland e il rimland, spazi democratici, Stati canaglia, un mondo libero e uno totalitario, centri, periferie e così via. In questo momento, per esempio, il mondo è un luogo inospitale, questo ci dicono la gran parte delle mappe che evidenziano gli scenari di guerra attorno all’Europa, ma ancora più inospitale era ai tempi del Covid, quando l’uso delle rappresentazioni cartografiche del virus divenne un elemento centrale per l’opinione pubblica. Mappe della diffusione del virus, mappe con i numeri dei decessi, mappe della concentrazione di inquinamento, mappe dei Paesi che avevano rapporti commerciali con certe province della Cina, mappe degli aeroporti a rischio, mappe della crisi reputazionale subita da certi brand, mappe delle riaperture dei negozi: ciascuna di esse disgregava i confini della cartina appesa nella nostra classe a scuola, ridisegnando una geografia, cioè un mondo, del tutto diversi.

Se in passato le mappe erano strumenti per analisti geopolitici o il contorno di articoli giornalistici, a seguito della pandemia esse sono diventate il luogo della rappresentazione e dell’interpretazione dell’emergenza e delle priorità secondo cui reagire. Quelle mappe offrirono la possibilità a tutti di discutere sui modi di contrastare il virus, sulle azioni di restrizione dei Governi o sui metodi di consegna dei vaccini, sui risvolti economici e sulle gerarchie delle scelte politiche nei diversi Stati. Lì abbiamo capito che cosa è una mappa, quanto poco abbia a che fare con una rappresentazione fedele della realtà e quanto invece esprima una determinata visione del mondo, potente sebbene incompleta, in quanto soggettiva e parziale. La mappa è un framing, una cornice che induce a guardare il mondo in un certo modo e può costruire uno o più modelli interpretativi a uso del pubblico.

La chiave è, dunque, l’interpretazione dei dati, siano essi fisici o cartografici. Se poi connettiamo dati differenti e cerchiamo una coerenza possibile, nel presente e nel futuro, allora stiamo facendo geopolitica. La costruzione del “quadro generale”, tipico dei modelli predittivi geopolitici, è di per sé una potente narrazione, che tuttavia attiva un pensiero spaziale, il quale torna a guardare alla mappa e al mondo fisico con occhi diversi.

L’oggettività apparente della geopolitica si fonda proprio sull’evidenza dei singoli elementi che la sua narrazione collega e rende coerenti non solo fra di loro, ma anche con le scelte e le azioni che le persone, i Governi, le imprese, le organizzazioni o gli eserciti compiono. Questa rivelata coerenza è sempre opera di un pensiero politico, anzi geopolitico, e crea conoscenze che possono a loro volta diventare nuovi dati oggettivi da connettere. Infine, queste visioni geopolitiche diventano credenze condivise, che permettono agli Stati di essere coesi e di esercitare il loro potere: alcune di queste visioni – di solito quelle degli altri Stati – ci appaiono mitologiche, fantasiose, perfino forzate, di certo ideologiche. Ma così appariremo noi agli altri: infatti ogni Stato, e con esso ogni cultura, pensa di avere qualità speciali intrinseche e oggettive.

È la storia della geopolitica, in cui in diverse epoche i diversi Stati si sono considerati di volta in volta strategici, eccezionali, custodi, esempi, potenti, succubi, in crescita, in declino e il mondo è stato rappresentato ed etichettato da essi in vari modi.

Questo costrutto geopolitico, che è culturale, induce i Governi a compiere certe scelte e i cittadini eventualmente ad appoggiarle; queste visioni metaforiche, che ogni geopolitica costruisce sulla base della rappresentazione geografica e coerente di dati visibili, costituiscono una forma di conoscenza e quindi un pensiero, cioè motivi per agire. Ma esse nascono, a loro volta, da visioni e culture precedenti, con cui si vogliono allineare, come gli usi e le tradizioni, le radici culturali, i sentimenti di appartenenza e così via.



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