Emile Benveniste

Sul senso delle parole. Una piccola costellazione della fraternità

Nel primo volume del Vocabolario delle istituzioni indoeuropee, dedicato a “economia, parentela, società”, Emile Benveniste parla di «quattro cerchi dell’appartenenza sociale». È qui che il linguista, nato a Aleppo nel 1902, a lungo direttore dell’Ecole Pratique e dal 1937 professore al Collège de France, offre le indicazioni più preziose per comprendere il tema dell’abitare e dell’ospitare, dell’accogliere e del condividere. Ma un quinto cerchio – il cerchio più grande, che contiene e al tempo stesso sostiene tutti gli altri – si aggiunge: il bisogno fondamentale di fraternità. Il latino ha due radici per indicare fratello e sorella: frater e soror. Di conseguenza in alcune lingue europee permangono radici differenti: mentre lo spagnolo ha optato per un diverso termine latino, germanus/germana, da cui hermano/hermana, altre lingue hanno scelto la derivazione da frater/soror: l’italiano; il francese (frère/soeur); l’inglese (brother/sister); il tedesco (Bruder/Schwester). Proprio il tedesco ha però coniato Geschwister, che comprende entrambi i generi e viene reso di solito con “fratelli e sorelle”: come si vede, in questo caso prevale la radice femminile. Il derivato Geschwisterlichkeit indica quindi fraternità e sororità insieme. il sottotitolo tedesco dell’enciclica Fratelli tutti è infatti Geschwisterlichkeit (non il maschile Bruderlichkeit) come segno di un’attenzione radicale per questo paradigma.Ospitalità. Partiamo dall’ospite. Chi è l’ospite? Mai come in questo caso, l’etimologia ci aiuta a risolvere un’ambivalenza che nasconde infinite insidie e apre il raggio dei significati a un’imponente rete di suggestioni, rimandi, concetti, simboli. Ospite è tanto la persona che accoglie nella propria casa, quanto la persona che è accolta in casa d’altri.

Il latino hosp?te (nomin. hospes) è infatti «colui che ospita», e «colui che è ospitato». Hospes ha un’origine indoeuropea che viene fatta risalire a ghos(ti)-potis, «signore dello straniero», cioè il padrone di casa che esercitava il diritto di ospitalità nei confronti del forestiero, composto da ghostis, ossia straniero, e potis, signore e corrispondente all’antico slavo gospod?, padrone, signore, da cui, con lo stesso significato, deriva il russo gospodín.

Potere, casa, accoglienza, amicizia, legame. Ma anche guerra, inimicizia, nemico. Approfondendo i termini comuni al vocabolario preistorico delle lingue dell’Europa, infatti, le parole mostrano la complessità delle cose. Ecco perché la riflessione etimologica su “ospite” riveste per noi interesse tutt’altro che ozioso. Ricorda Benveniste che «h?stis del latino corrisponde al gasts del gotico e al gost? dell’antico slavo, che presenta inoltre gospod? “signore”, formato come hospes. Ma il senso del gotico gasts e dell’antico slavo gost? è “ospite”, quello del latino h?stis è “nemico”. Per spiegare il rapporto tra “ospite” e “nemico”, si ammette di solito che l’uno e l’altro derivino dal senso di ‘straniero’ che è ancora attestato in latino; da cui “straniero favorevole ospite” e “straniero ostile nemico”». Alla radice dell’ospitalità c’è dunque il rapporto con lo straniero. Chi ci è nemico, oggi? Chi ci è amico? Questo secondo è il punto chiave.

Partiti dall’ospite, siamo arrivati allo straniero e all’ostilità – che in un mondo segnato da una “guerra mondiale a pezzi” sembra divenuta l’unica modalità di relazione con l’altro da sé. Chi è straniero e, soprattutto, quale straniero e a quali condizioni diventa per noi ostile (hostis)? Benveniste ricorda che il termine hostis ricorre nella Legge delle XII tavole, matrice dell’arcaico diritto romano, come “straniero”. Da straniero a nemico il passo sembra breve, eppure non lo è. Secondo una testimonianza di Festo risalente al II secolo d. C., al termine hostis veniva dato significato di «colui che ha gli stessi diritti del popolo romano». Pompeo Festo ricorda che, in origine, il verbo hostire significava anche aequare. Ospitalità ed equità, ospitalità e reciprocità, giustizia dunque. Non a caso è qui che ritroviamo anche un’antica parola, hostia, di cui ben conosciamo significato e importanza.

In origine, dunque, l’ospite, anche nel senso di hostis, non era lo straniero ostile, né il nemico, ma lo straniero al quale si riconoscono diritti pari a quelli dei cittadini. Ed è proprio nel vortice di questa complessa vicenda storico-concettuale che nascono il moderno concetto di ospitalità e quello, più tardo, di ostilità, oltre che la polisemia sconcertante del termine ospite. In questa faglia tra lingua e radici, si apre la grande questione dell’altro che viene. Chi è l’altro che viene (alla casa)? Ospite, nemico?

Abitare. Benveniste ricorda che l’antico iranico ha conservato termini che designiano divisioni sociali che, dalla più piccola alla più estesa, si allargano fino a inglobare l’intera comunità, costituendola. Sono: la famiglia, la comunità, il paese. Proprio qui che si gioca un’altra partita, fondamentale per noi. E si gioca attorno alla radice indoeuropea dem, in iranico antico dam, da cui deriva il latino domus.

È sulla “casa”, in sostanza, che si gioca l’intera struttura materiale e simbolica del sociale. Sulla casa come costrutto che designa frontiere, inclusioni, esclusioni e le forme di quell’abitare fraternamente lo spazio della relazione. La casa è una costruzione simbolica, oltre che sociale Ecco allora che l’aggettivo domesticus qualifica ciò che appartiene alla casa e si oppone a ciò che le è estraneo, ma senza rapporto con la forma materiale dell’edificio. Domestico è il famigliare, ciò che possiamo ospitare, ciò che possiamo abitare. Il luogo e lo spazio di una fraternità possibile che inizia –ma non si riduce – alla scommessa sulle parole e sulla nostra possibilità di abitarne concretamente, fraternamente il senso.



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