Fraternità: una via per costruire cooperazione, diritti e democrazia per tutti
La modernità, in politica, inizia sotto la bandiera a stelle e strisce, quella della prima colonia, della prima nazione, che si libera dal dominio straniero, quello dell’Inghilterra. Dichiara che tutti gli uomini sono creati uguali e sono dotati dal Creatore di diritti inalienabili, tra cui la vita, la libertà e la ricerca della felicità.
Pochi anni dopo, in Francia, una rivoluzione diffonde tre parole: Liberté, Egalité e Fraternité. Parole da cui scaturiscono e che permeano le correnti ideologiche della politica moderna, il liberalismo, il socialismo e il nazionalismo. Perché merita attenzione rilevare che, in quella rivoluzione, fraternità parla di fratelli in armi: «allons enfants de la patrie». Quelle idee si diffondono e caratterizzano i due secoli successivi.
Ma nei secoli quelle parole si trasfigurano, con Liberté che si fa egoismo e si chiude in liberismo senza regole, in economia orientata al massimo profitto, con Egalité che stinge in equità e si fa conformismo, con Fraternité che si arrocca in esclusione e si fa razzismo e discriminazione. Perché le parole, e con esse la stessa democrazia sono sempre storicamente determinate e mutano al variare delle condizioni. Tanto più nel nostro tempo.
Quando il futuro stesso sembra diventare una minaccia, con crisi – politica, economica, sociale, ambientale, demografica e migratoria, culturale – che minano l’idea stessa e la fiducia nel progresso. In un mondo dove culture di altre radici e tradizioni, regimi autocratici, ma anche correnti di pensiero nelle nostre società, contestano il valore universale della democrazia stessa. Un tempo in cui tutti – non solo chi fa cooperazione internazionale – riconoscono la guerra mondiale a pezzi. E i pezzi sono sempre di più e più cruenti, più minacciosi. Abbiamo bisogno di rinnovare le parole. C’è una parola nuova, seppur antica, che può essere il punto di appoggio. Quella parola è Fraternità, che vuol dire sentire che siamo indissolubilmente legati gli uni agli altri, che abbiamo lo stesso destino, che l’alterità è grazia. Comprendere le parti e le ragioni in gioco, capire da quale parte stare, e far parte delle donne e degli uomini che lottano per la libertà, la giustizia e la felicità.
Fraternità che per noi diventa relazione profonda con l’altro e diventa pratica quotidiana; o almeno ci proviamo. Chi fa cooperazione, vuole dare un suo contributo per la giustizia e per pace anche solo tenendo accesa una piccola luce di speranza e per tradurla in fatti concreti e almeno per alleviare il dolore. Per costruire la giustizia e la pace dal basso, nella vita di ogni giorno, con azioni come gocce d’acqua, quelle che scavano le pietre.
Lavorando nelle periferie più abbandonate e nei villaggi più lontani, scavando un pozzo, costruendo una scuola o un’infermeria, piantando alberi, curando un malato, nutrendo un bimbo, rendendo umano un carcere, sostenendo lo sviluppo di una piccola azienda artigiana o contadina, salvando dall’estinzione un umile specie vegetale, sostenendo i diritti dei popoli indigeni, promuovendo l’associazionismo e la cittadinanza attiva. Cooperazione che non si riduce a un dono, a un trasferimento monetario, dall’alto in basso, che può indurre dipendenza, sterile assuefazione per chi dà e per chi riceve. Ma è interesse comune, è politica estera dal basso, relazioni di comunità, di persone. Con progetti comuni, in partenariato. Dialogando e lavorando con le comunità locali, con la società civile, con le associazioni, con le famiglie, con i più deboli e fragili. «I dwell in possibility», ci dice Emily Dickinson. Quella di tradurre in pratica quotidiana la grammatica dei valori e dei diritti. Quella di continuare a camminare sulla strada che da Gerusalemme scende a Gerico, per provare a essere prossimo in tanti angoli del mondo, i più lontani, i più trascurati, i più martoriati. Quella di essere fratelli (e sorelle) tutti (e tutte).
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